Meri, non ho ricette. Non che non mi piacesse cucinare. Parlo al passato perché da molto tempo non cucino più per gli altri se non quello che cucino per me stesso. E una ricetta, si sa, è fatta per gli altri. Cucinavo nella mia piccola cucina di Perry Street. Mi improvvisavo cuoco, anzi fingevo di esserlo. Fino ad allora la preparazione del cibo non era stata che una prerogativa di mia madre. Certo, potrei darti una delle sue ricette. Le mamme, anche quando servono il pranzo, sembrano mettere alla prova dei fatti la riuscita di una ricetta. Ma non voglio dirti quello che non sono stato capace di inventare.
Dunque, fingevo di saper cucinare. Venivo dall’Italia. Kelli, perciò, sapeva molte cose di me prima ancora che gliene avessi data la dimostrazione. Iniziai con le peperonate, gli stufati di melanzane, le frittate di zucchine, i risotti. (Ora ricordo che mi consultavo con mia madre al telefono.) Con Kelli parlavo dei nostri ingredienti italiani, che, a prezzi esagerati, trovavo da Balducci sulla Sesta. Le spiegavo l’ovvio per noi. Facevo grandi figure con poche nozioni. Era stupita dalla semplicità delle nostre ricette. Ignorava quanto le mie mani le avessero ridotte all’osso. Avevo eliminato perfino il soffritto, e solo perché fatico a digerirlo. È pur vero che anche mia madre con gli anni ha semplificato i suoi procedimenti, portando la sua meravigliosa cucina di meridionale sposata a un settentrionale a un’ingegnosa somiglianza con l’origine di tutte le cucine, la fame. Una fame evitata, ma evocata nella scarsità delle salse, nella scomparsa delle decorazioni, nel rimpicciolimento delle portate, e risolta a puro nutrimento, vorrei dire a latte.
Una sera arrivai in ritardo a casa. Avevo promesso a Kelli di prepararle la cena. Invece non avevo fatto neppure la spesa. Come al solito, lei sedeva, voltandomi le spalle, alla sua scrivania. La salutai dalla soglia ed entrai nella nostra cucina. Non avevo il coraggio di deluderla. Misi l’acqua sul fuoco per la pasta, sforzandomi di pensare a una soluzione. Ci rimaneva una scatoletta di tonno sott’olio. Avremmo mangiato pasta con tonno. Forse sarei riuscito a ingannarla anche questa volta. Scolai la pasta e, mentre la versavo nella bacinella in cui avevo già versato il tonno, sentii all’improvviso un profumo di orti e di pace scendermi fino al cuore. Alzai la testa alla finestrella che si apriva sopra il lavandino e, in un bicchiere, sul davanzale, vidi un rametto di “dillâ€, un’erba dolciastra e delicata, simile a un rosmarino, ma più sfilacciata e più tenue, che Kelli comprava per abbellire gli angoli desolati della casa. Aneto si chiama in italiano, un nome di Virgilio. Kelli, che mi aveva raggiunto da dietro in silenzio, allungò il braccio e tolse il rametto dall’acqua. Lo frantumò e lo sparse sulla pasta fumante, creando un piatto che, capace di un sapore inaspettatamente complesso e perfetto, i nostri futuri ospiti avrebbero preso per il frutto di laboriose alchimie. Aveva imparato la mia inessenza. Ci amavamo.
Nicola Gardini, poeta, vive a Milano.