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INOXRIV 1941 | 2021

INOXRIV 1941 | 2021

Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà. 
(Wislawa Szymborska) 

 

Con le immagini di Luca Campigotto e le parole di Andrea Valcalda abbiamo voluto fermare un momento nel nostro percorso aziendale che compie ottant’anni. 
Abbiamo scelto di farlo offrendoci uno spazio più ampio del contesto economico, uno sguardo fatto di arte e pensiero, che abbraccia un umanesimo dentro cui sta la nostra storia di persone che fanno impresa. 
Cambiare in un mondo che cambia rimanendo fedeli alla propria identità ed ai propri valori, realizzare con coerenza le potenzialità, affrontare continuamente nuove scelte, è un esercizio quotidiano che ha bisogno di fiducia, entusiasmo e visione del futuro. 
Noi di Inoxriv vogliamo averne ancora per molti anni... 

Aurora Rivadossi 
Amministratore Delegato di Inoxriv spa

Fotografie | Luca Campigotto

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Rostfrei | Andrea Valcalda

In me il passato non è morto.
È qui,mi lavora.
(Massimo Morasso, L’opera in rosso)

 

So di aver vissuto distrattamente gran parte della mia vita. Un peccato, temo, imperdonabile. E reiterato, ché per quanto mi sforzi non riesco a dare adeguata attenzione a ciò che accade, né a metterne a sufficienza nelle cose che faccio, con l’aggravante che oggi ne sono consapevole, trovandomi così nello stato, davvero miserabile, del recidivo. 

Per questo, e per molto altro, l’Angelo della Giustizia, se lo incontrassi, m’incenerirebbe al primo sguardo. Eppure, mi dico, non è tardi per tentare ancora una volta il passo incerto, ma decisivo, che dall’autoindulgenza porta alla trasformazione, anche minima, di sé. 

Non è tardi. Ho letto di recente una pagina sui “tempi della vita†nella mistica sufi: quattro periodi di ventotto anni, suddivisi a loro volta in quattro cicli di sette. Alla mia età, per esempio, mi accingerei a lasciare il “Tempo della Stabilitàâ€, tempo che avrei dovuto dedicare a perseguire un’armoniosa realizzazione nei diversi campi della vita, per entrare nel “Tempo della Prosperitàâ€, da cui, inshallah, procedere verso il quarto e ultimo “Tempo della Saggezzaâ€, che va dagli ottantaquattro ai centododici anni! 

La prospera inclinazione di un periodo associato, di solito, a un’incipiente decadenza non mi dispiace. Scopro poi che il tempo che mi attende porterebbe con sé un crescente desiderio di vita e di sviluppo spirituale, insieme all’esigenza di fare movimento, di nutrirsi meglio… Insomma, un’aspirazione e una concreta possibilità di dare nuovo e, forse, migliore orientamento alla mia esistenza. 

Purtroppo non sono un sufi, non so nulla del sufismo e non posso seriamente pensare che tutto ciò mi riguardi. Nulla mi vieta però di guardare con simpatia, e perché no, con speranza, a una prospettiva che, in fondo, mi persuade più di quanto ci stia scherzando su. E non solo perché i cicli settenari ricorrono a fondamento di altri sistemi, dall’antroposofia di Steiner alla teoria per cui l’intero organismo si rinnova, tramite ricambio delle cellule, in un arco, appunto, di circa sette anni; ma anche perché mi pare che, avvicinandomi a questo tempo prospero, qualcosa nelle mie attitudini e nei miei comportamenti stia mutando, o sia pronto a mutare, e non in peggio. 

Niente di trascendentale, devo ammettere. Un po’ più di continuità, di disciplina, nelle azioni e nel pensiero; meno dispersione, maggiore intensità e immediatezza. 

Ancora: è cresciuta in me la consapevolezza di quanto, con la dovuta disposizione, “fare†sia quasi sempre meglio di “non fareâ€, per quanto molti saggi di ogni tempo e paese abbiano detto esattamente il contrario. 

Non do più per scontate, o inevitabili, alcune circostanze; mi disturbano le frasi fatte e le convinzioni pigre, figlie dell’inerzia del pensiero e del giudizio. Un’affermazione banale come “le cose belle non durano†mi dà oggi molto da pensare, rispetto a un tempo in cui avrei potuto accoglierla senza rifletterci troppo, o ascoltarla con disattenzione. 

Ci sono cose belle che durano, anzi le facciamo belle proprio perché durino. C’è chi riesce a percepire la bellezza delle cose passate, nella loro fantasmatica sopravvivenza; chi aspira la bellezza di quelle che saranno, e persino chi prova nostalgia per la bellezza delle cose che non furono mai. 

Ma più che intorno alla bellezza, è sulla durata che qui vorrei soffermarmi. Sulla durata in cui si manifesta l’essenza delle cose, come se il tempo ne fosse la vera materia. E, di contro, sul mondo che si vuole e si rappresenta in continuo cambiamento, avido di “esperienze†e di istanti cercati e vissuti come assoluti, autosufficienti, “liberiâ€, in un tempo che trascina nel suo puro trascorrere di frammentazione e di perdita. 

“Viviamo nell’epoca del cambiamentoâ€. Ed è sempre un cambiamento “radicaleâ€, “pervasivoâ€, “esponenzialeâ€, “senza precedentiâ€, clichés che sento ripetere da almeno trent’anni nel gergo aziendale e nella chiacchiera giornalistica, cascami di un’idea di storia e di progresso lineare. 

La continua istanza e la retorica del cambiamento mi interessano poco. Mi interessa invece la trasformazione, fatta da minimi e impercettibili mutamenti, passi incerti, dubbi, slanci, resistenze, ritorni, piccole conquiste, piccole sconfitte: la nostra esperienza quotidiana. O meglio, la mia, quella di cui posso parlare. Così, mi pare, ci formiamo, diventiamo noi stessi: un po’ diversi rispetto a quello che eravamo e a ciò che ci saremmo aspettati di diventare, molto diversi da quello che gli altri si aspettavano o vedevano in noi. Nel tempo compiamo imprese, intrecciamo legami, costruiamo qualcosa, lo facciamo crescere, o lo portiamo alla rovina; mentre intorno a noi, anche lontanissimo da noi, con un’intensità di cui siamo (colpevolmente? fortunatamente?) ignari, agiscono le nostre “membra spiritualiâ€, le forze e gli effetti delle nostre parole, delle nostre azioni, delle nostre scelte, delle nostre creazioni. E continueranno ad agire anche dopo di noi, mentre noi, tramite loro, continueremo a trasformarci, prima nel ricordo, poi nella memoria, poi come fantasmi nei gesti, negli atteggiamenti, nei pensieri di altre persone, sotto, e dentro, altre spoglie. 

Diventare ciò che si è. O rendere giustizia alla propria vita, un altro modo per dire il compito più importante a cui dedicarsi, consapevolezza che ancora non riesco ad associare a una mappa mentale altrettanto chiara. Provo a leggere per attingere dai grandi, cerco spunti e ispirazioni sapendo che, come in tutte le cose fondamentali, non c’è qui nessuna formula da imparare, e anche poco da condividere in modo sensato, non essendoci via diversa da quella di un continuo, personale apprendistato.

Se ho parlato di mappa, però, è perché sento l’esigenza di orientare i miei passi, avendo individuato un orizzonte, quello dellariunificazione, verso cui muovere.

Riunificare anzitutto me stesso, ricercando quell’uomo indiviso che dovrebbe essere il presupposto di ogni azione degna di questo nome, piuttosto che una meta. Ma così non è. Sono rari i momenti in cui sento di agire in totale integrità: prendo allora posizione con naturalezza, opero risolutamente, dico le parole giuste e mi ascolto stupito, quasi non fossi io a parlare. Momenti che vorrei più frequenti, come tappe di una crescita interiore che avviene solo attraverso la relazione, in tensione tra sensibilità e distacco, tra apertura agli altri e intensificazione di sé.

Riunificare ha poi un secondo, forse più importante, significato. Per come l’intendo, vuol dire accogliere con continuo, rinnovato stupore quello che accade, non come frammento, ma come ciò che si presenta a noi nell’unico modo dovuto, necessario e irripetibile, e ci riunifica col mondo, coi mondi tra cui ci muoviamo. E possiamo così risalire, riannodare i legami con la nostra origine, con ciò che è stato vissuto prima di noi per ricomporre e immaginare creativamente il disegno della nostra esistenza, inserita come un filo tra l’ordito e la trama di un tappeto orientale.

Uno dei grandi di cui sopra giunge qui in mio aiuto. “Egli tiene l’unicità dell’evento in grandissima stima: e sopra ogni cosa pone il singolo essere, il singolo atto, perché in ciascuno di essi ammira il conferire di mille fila che dalla profondità dell’infinito vengono ad incontrarsi e a cui in nessun altro luogo né mai più sarà dato incontrarsia quel modoâ€. Così Hofmannsthal parlando dell’artista, cioè del poeta e quindi di noi, dell’umanità di cui, come è stato detto, il poeta è compendio.

Man is a tool-using animal; l’uomo è un animale che usa utensili. Suonano meglio in originale le parole di Thomas Carlyle citate da David Jones inArte e Democrazia, saggio in cui sostiene la tesi apparentemente innocua per cui solo gli uominifanno cose, distinguendosi così dalle bestie (e dagli angeli) in quanto animali creativi e perciò, necessariamente, uomini-artisti, dove il termina “artista†è impiegato nel suo senso fondamentale e non in quello moderno, più ristretto. In questo senso, “tutti gli uomini sono creati uguali†diventa la “verità evidente†statuita dal primo articolo della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America: tutti creati ugualmente creatori.

Il fatto che l’uomo, e solo l’uomo, sia un facitore di cose pare, a prima vista, un concetto inoffensivo; stimola invece riflessioni, problemi e dilemmi insoluti persino al fuoco di una mente geniale come quella di Jones. Ma non scoraggiamoci, tanto più ch’egli stesso invitava ciascuno a fare da sé le proprie ricognizioni, stimando ogni parziale contributo come sommamente necessario.

“Noi siamo quello che facciamoâ€, ad esempio, di presunta derivazione aristotelica, è una trincea, direbbe Jones, da cui potremmo partire. Lasciamo perdere l’accezione banale per cui soltanto i fatti contano, e non le intenzioni. E lasciamo anche perdere, non perché non meriti attenzione, al contrario, ma perché ci porterebbe vertiginosamente lontani, un pensiero radicale e antitetico secondo cui non sono le opere a farci giusti, ma siamo noi a fare giuste le opere. Torniamo alle cose che produciamo, ai nostri utensili, ai nostri manufatti. Brodskij, davanti al mattone rosso affiorante dai muri di Venezia, rifletteva su come, a somiglianza dell’Onnipotente, l’uomo faccia le cose a sua immagine, così che un muro, un camino, qualunque cosa, diventa autoritratto in forma elementare della nostra specie. Da qui, forse, il fascino degli edifici e degli spazi abbandonati, luoghi che parlano di noi più di quanto saremmo capaci di raccontare.

Aristotele diceva, probabilmente, un’altra cosa ancora, e cioè che siamo atti, per natura, ad accogliere le virtù, e ci perfezioniamo con l’abitudine, facendo cose ripetutamente e facendole bene. Così per le arti, per tutti i costruttori e per tutti gli artefici: costruendo bene si diventa buoni costruttori; costruendo male, cattivi costruttori. E qui ci avviciniamo, per vie traverse, a quello che Jones definiva un “problema di prim’ordineâ€.

Le opere dell’uomo-artista, scrive, si distinguono da quanto prodotto da altri animali (nidi, tane, dighe, ragnatele, alveari, anche di straordinaria perfezione e bellezza) dal fatto di non potere, a rigore, essere ordinate interamente ed esclusivamente alla mera “utilitàâ€. In ogni campo della produzione umana c’è sempre stato un sovrappiù di “extra-utileâ€, una gratuità che porta le cose, inevitabilmente, verso il mondo dei “segniâ€; e da qui, seguendo l’estensione del suo ragionamento, verso il sacramento. Ed è questa la natura delle cose che si conformano ai normali, giusti e fondamentali desideri di tutti gli uomini, dell’Uomo pienamente inteso. In questo senso un’opera letteraria, visiva, musicale, “artistica†in senso ristretto, non si distingue da un vaso, un edificio, una torta, un abito, persino da una maniglia in ferro, nella misura in cui anch’essa viene prodotta impiegando materia eperfezionando progressivamente il lavorofino afare in maniera adattauna nuova forma che entra nel mondo esprimendo, oltre la sua funzione d’uso, l’essenza della propria “maniglitàâ€.

Come è possibile allora che la presente tecnocrazia, scriveva Jones a metà del secolo scorso, realizzi opere così scadenti, mediocri, ingannevoli, “sub-umaneâ€, pur essendo prodotte dallo stesso uomo-artista,homo fabernella sua pienezza? Se neghiamo che l’uomo è uomo-artista, neghiamo la sua esistenza, la sua natura integrale; se continuiamo a credere all’esistenza di quell’uomo, è difficile rendere ragione della qualità, puramente utilitaristica, delle sue attuali opere.

Proseguiamo, allora, la nostra ricognizione su un altro fronte. Se mi guardo intorno mentre scrivo queste righe vedo l’appartamento dove vivo da circa tre anni. Sono a Roma, vicino a via Nomentana e non lontano da Villa Torlonia, al terzo piano di una casa costruita quasi cent’anni fa, come attesta la scritta Anno Domini MCMXXX incisa sopra il portone d’ingresso, sotto una nicchia contenente un busto della Madonna con Bambino. Il proprietario, un anziano professore di linguistica che vive qui a fianco, esperto di iscrizioni etrusche, mi ha raccontato che l’edificio fu progettato e costruito da un suo familiare, un architetto di origine genovese, il quale senza dubbio si divertì ad arricchirlo di elementi “extra-utiliâ€: dagli stucchi che fregiano il soffitto sopra la mia testa, agli affreschi in stile floreale che ho sbirciato passando davanti ad altri appartamenti e che decorano l’esterno, l’ingresso e le facciate. Tra questi uno, particolarissimo, a lato del portone, che raffigura una scena tratta dalla Cena delle beffe di Sem Benelli e riporta, in caratteri gotici, la battuta resa poi popolare dalla versione cinematografica interpretata da Amedeo Nazzari: “Chi non beve con me, peste lo colga!â€. 

In questi anni, tanto più in questi ultimi mesi, ho apprezzato l’importanza di abitare in una casa “ben fatta†o, se vogliamo, “come si facevano una voltaâ€: con i muri spessi e quindi silenziosa, ben distribuita e orientata, luminosa, bella esteticamente, funzionale e perfettamente sensata. La palazzina fu certamente concepita e costruita con ambizioni signorili, ma anche l’edilizia popolare di quel tempo, e ve ne sono a Roma magnifici esempi in diversi quartieri, aveva una qualità architettonica e costruttiva molto elevata. Ugualmente, i primi esempi di funzionalismo e di architettura razionalista, pur innovando completamente nello stile, parlavano lo stesso linguaggio qualitativo. Qualcosa poi negli anni successivi, quelli in cui Jones elaborava le sue riflessioni, cambiò: era il periodo della ricostruzione post-bellica, seguito dal cosiddetto “boom edilizioâ€. 

Per avanzare nella ricognizione mi sono allora rivolto a mio padre, che aveva all’epoca una piccola impresa edile con cui costruì una decina di case a Genova e in Liguria, tra cui quella in cui sono nato e ho vissuto i miei primi anni, a Sestri Ponente. Così, da una fonte diretta, ho raccolto conferme e dettagli su quanto in parte sapevo, in parte immaginavo. 

Urbanizzazione, crescita economica e sviluppo demografico portarono una grande domanda di nuove abitazioni da parte di una committenza rappresentata, nel suo caso, da cooperative costituite tra lavoratori, impiegati di grandi aziende, o insegnanti, interessati ad acquisire la proprietà di una prima casa, incoraggiati da mutui e contributi statali erogati a condizioni particolarmente vantaggiose, di cui beneficiarono anche speculatori, “palazzinari†e investitori disinvolti. Rapidità di costruzione, alta densità abitativa e costi contenuti erano quindi i criteri prioritari. I progetti venivano affidati ad architetti o ingegneri che, in mancanza di indicazioni specifiche o di piani regolatori vincolanti, proponevano soluzioni elementari e standardizzate, mentre la qualità era, di fatto, demandata alla responsabilità e alla serietà del costruttore: prescrizioni carenti o non applicate, controlli puramente formali e quasi inesistenti, impiego di materiali scadenti e vere e proprie truffe ai danni dei committenti erano pratiche diffuse. Ovviamente, anche in quel contesto si poteva costruire più o meno bene: nei casi migliori, secondo principi prevalentemente economici e funzionali, nei peggiori, senza un minimo criterio qualitativo, per edifici che della “casa†avevano il nome ma non più il senso e spesso neppure la piena funzionalità. “Che stia in piedi, e non ci piovaâ€: i danni si sono visti e si vedranno, purtroppo, ancora a distanza di molti anni.

Mi sono spinto però fin troppo avanti e rientro con qualche informazione di prima mano da un terreno, per il resto, ampiamente esplorato. Il caso, tuttavia, mi pare pertinente, anche dal punto di vista storico, rispetto al problema che stiamo esaminando e mi porta a fare qualche considerazione.

Non penso che la natura dell’uomo sia cambiata, né che possa cambiare. Viviamo immersi in un mondo di “segniâ€, li produciamo in continuazione e la pura utilità di quel che ci circonda non appaga le nostre necessità. Anzi, la società dei consumi, di cui Jones vedeva i prodromi, si fonda proprio sulla capacità di sfruttare e pervertire questa naturale esigenza per indurre bisogni superflui e caricare di valenze “extra-utili†gli oggetti dei nostri desideri. 

Non credo quindi possibile, tornando alle immagini e al vocabolario di Jones, una diserzione in massa dalle truppe diArs, né vedo un processo generale e irreversibile di scadimento delle nostre creazioni; ognuno di noi ne può fare esperienza, in vari campi. Vedo anzi, ottimisticamente, qualche segnale in senso opposto. Serve, però, particolare attenzione: i fenomeni sono recenti, è facile generalizzare circostanze accidentali o, al contrario, disputare intorno a concetti astratti, che è come dire intorno al nulla.

Dico, allora, molto semplicemente: fare bene le cose. Da qui passa la fedeltà a sé stessi, l’adempimento del nostro destino. 

Dare senso alle cose che facciamo e al processo con cui le portiamo alla luce, evitando scorciatoie ed espedienti; rispondere a bisogni reali e non ingannevoli; creare quindi cose buone, belle e utili. Sono concetti essenziali che valgono per ogni attività umana, dal nostro parlare al nostro lavoro quotidiano, qualunque esso sia, fino a quanto produciamo per diletto e alle “opere d’arteâ€. 

Conosco una persona capace di dedicare giorni interi, ore e ore di impegno continuo, al di là di ogni ragionevole sforzo, alla creazione di file excel perfetti, “bellissimi†a suo dire (ma Jones avrebbe condiviso), fatti per analizzare e gestire fenomeni complessi. La qualità di questi file va sempre oltre le richieste e le aspettative, al punto da non essere, quasi mai, pienamente o nemmeno adeguatamente apprezzata da capi o committenti che, sempre a suo dire, non avrebbero meritato in ogni caso la fatica spesa in quel lavoro. Ma non è questo il punto. “Nessuno mi capisceâ€, l’ho sentita dire spesso. Anch’io non avevo capito, fino ad ora. 

“Avrei tante cose da scrivervi. Mi vengono tanti pensieri e sentimenti, ma non ho né il tempo, né le forze di scriverli. Eccovi una cosa che non posso non scrivere: abituatevi, educate voi stessi a fare tutto ciò che fate perfettamente, con cura e precisione; che il vostro agire non abbia niente di impreciso, non fate niente senza provarvi gusto, in modo grossolano. Ricordatevi che nell’approssimazione si può perdere tutta la vita, mentre al contrario, nel compiere con precisione e al ritmo giusto anche le cose e le questioni di secondaria importanza, si possono scoprire molti aspetti che in seguito potranno essere per voi fonte profondissima di un nuovo atto creativo. (...) Chi agisce con approssimazione, si abitua anche a parlare con approssimazione, e il parlare grossolano, impreciso e sciatto coinvolge in questa indeterminatezza anche il pensiero. Cari figli miei, non permettete a voi stessi di pensare in maniera grossolana. Il pensiero è un dono di Dio ed esige che si abbia cura di sé. Essere precisi e chiari nei propri pensieri è il pegno della libertà spirituale e della gioia del pensieroâ€.

Sono parole che Pavel Florenskij indirizzò ai familiari, in una sorta di testamento. Le sue parole più importanti, rivolte a coloro che più amava.

Una stessa tavola per l’avo e il nipote
(Arsenij Tarkovskij,Vita, vita)

 

Le giornate di mio padre e mia madre scorrono, relativamente tranquille, al piano terreno di una vecchia casa sulle alture di Pieve Ligure, tra lavori domestici, cura del giardino, televisione, letture, medicine, preparazione e consumo dei pasti. La cucina, una grande cucina tradizionale con ripiani in muratura rivestiti di piastrelle, è il luogo dove vivono la maggior parte del tempo e dove celebrano i loro riti quotidiani. 

Tra le posate utilizzate tutti i giorni c’è una forchetta che immancabilmente, a mezzogiorno e alle sette di sera, compare sulla tavola. È unica e diversa dalle altre del servizio: ha una forma più snella e squadrata, sul suo manico è incisa una sigla, HGW – LINZ, e sul retro la parola ROSTFREI, marchio che identifica l’acciaio inossidabile. 

La storia di questa forchetta risale a mio nonno paterno, Michele.

Il 16 giugno del 1944 mio nonno fu arrestato mentre rientrava, dopo la pausa pranzo, allo stabilimento della San Giorgio di Sestri Ponente. Insieme a lui altri settecento tra impiegati e operai della fabbrica, vittime di un rastrellamento compiuto dalle truppe tedesche per reclutare forza lavoro tra coloro che, in quel momento, erano “traditori italiani†e dunque nemici del Reich. 

Furono caricati su un treno e portati via. Abbiamo ancora il biglietto che mio nonno riuscì a scrivere e a gettare dal treno nella speranza che qualcuno, come avvenne, lo raccogliesse e lo recapitasse. Coraggio, scriveva a mia nonna, non so ancora dove andremo, credo in Germania, non lasciatevi abbattere, ritorneremo. 

Arrivò invece in Austria, al campo di concentramento di Mauthausen, dove restò fortunatamente solo un paio di settimane; fu poi destinato al lavoro coatto presso la Hermann Göring Werke di Linz e vi rimase fino al termine della guerra. 

Il 17 giugno 1945, dopo un mese di viaggio, scese alla stazione dell’Acquasanta, dove mia nonna e mio padre erano nel frattempo sfollati; entrò nel Santuario per ringraziare e giunse infine a casa con uno zaino contenente poche cose, tra cui la forchetta di Linz, che usò poi tutta la vita. Quando fu il momento di svuotare l’appartamento dei nonni mio padre la prese con sé, insieme ad altri oggetti cari. 

Michele era un uomo buono, così anch’io lo ricordo. Dai racconti successivi alla sua morte ho capito come fosse sempre pronto a mettere pace nelle vicende di famiglia e quanto i miei genitori gli fossero affezionati. 

A ogni pasto mia madre decide chi dei due, quel giorno, può averne più bisogno e quindi la userà, per motivi che entrambi, senza doverli esplicitare, conoscono e condividono. Resta una forchetta, ma non è più solo una forchetta, né il semplice ricordo di una persona amata: è un oggetto sacro.

“La cucina è il tempio della religione delgenos, il principio che unisce le generazioni e per mezzo del quale le generazioni sono sante l’una per l’altra, formando un’unità sacra. Così era, così è stato per una lunga serie di secoli. (…) Anzi no, non lo era, lo è ancora, lo è in modo immutabile, così come immutabile è la nostra naturaâ€. Florenskij, come sempre, dice il vero.

Un giorno la forchetta di Linz passerà a me, e ne farò il mio uso. Poi non so, la sua vita inossidabile continuerà o forse s’interromperà da qualche parte. Fin d’ora, intanto, prosegue qui, su questa pagina.