GUERRA E PACE IN CUCINA

  • JOSIP
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Preparazione

La guerra è - detto nel modo più semplice - qualcosa che non assomiglia minimamente alla pace. In nulla, neanche nell’arte della cucina. Per precisare: in culinaria meno che meno. Perché la guerra irrompe fin dagli inizi in cucina e le sue conseguenze - miseria, mancanza di cibo, fame - si avvertono ben presto.

Gli uomini fanno la guerra. È noto che gli uomini sono i migliori cuochi. Ma non basta. Loro - scherzi a parte o meno - intendendosi anche di bassa cucina, finiscono spesso per scodellarci questa sorta di minestra bollente e indigesta che noi tutti, volenti o nolenti, dobbiamo mangiare. È vero che nei più grandi e migliori alberghi del mondo i cuochi sono gli uomini. Ma è altrettanto vero che le donne, le nostre nonne, le mamme e le mogli sono le regine della cucina. Sono loro a provvedere affinché la tavola sia ricca ed abbondante in pace e in guerra, ed allora l’aiuto maschile nella maggior parte dei casi manca proprio. Le donne dimostrano la loro ingegnosa abilità gastronomica quando c’è tutto a profusione ed anche quando c’è penuria perfino del necessario. Sono loro a lottare per la sopravvivenza della famiglia ed a vincere questa dura battaglia, indifferentemente dall’esito della guerra. Ricordo benissimo i primi anni del dopoguerra che avevo trascorso - in gran parte in cucina - assieme alla nonna, la quale aveva perso in guerra il marito e il figlio. La osservavo mentre teneva d’occhio, come la chioccia i suoi pulcini, il resto della famiglia e faceva addirittura miracoli in cucina. Non riuscivo a capacitarmi, stupefatto, alla vista dei piatti sempre pieni, malgrado non ci fosse in casa letteralmente niente. Per non parlare dei tempi in cui c’era tutto a sufficienza ed anche di più e preparava intere montagne di vivande. Quando per pranzo c’erano più portate e non una sola. L’antipasto d’obbligo. Poi il brodo, fatto ogni volta in modo diverso. Il piatto forte con più specie di carne e con contorni differenti. E la «pita». Veramente le «pite». Taluni preferivano la «pita» di patate al «burek». Agli altri invece piaceva più la «pita» di spinaci che quella di ricotta o di zucchine. Io invece mi dilettavo a mangiucchiarle un po’ tutte. Alla fine, se c’era davvero una fine, venivano i pasticcini. Di ogni tipo. (Adesso dovrei dire a me stesso: «Non farmi venire l’acquolina in bocca!») E tutto questo prendeva forma davanti ai miei occhi. In maniera uguale, davanti ai miei occhi appariva più di un manicaretto nella cucina di mia mamma.

Per questa ragione l’arte di preparare i cibi è per me la più grande stregoneria. Il più famoso mago o alchimista al mondo non riuscirebbe a superare in quest’arte mia nonna e mia mamma, né - sono convinto - le vostre nonne e mamme. Sono convinto inoltre che non occorre affatto che mi metta a persuadervi in quanto a questo. Cercate di richiamare alla mente la cucina della vostra nonna o della mamma, io lo faccio spesso. Ecco qua la tavola, il fornello... e mani d’oro che fanno prodigi di tutto ciò che toccano. Da un monticello di farina setacciata nasce il pane, la «pita», i dolci... Mi ricordo che la nonna non pesava mai gli ingredienti. Soppesava con la mano, con un cucchiaino, con tre dita o con la punta di un coltello. E le dosi erano sempre giuste, il cibo sempre giusto di sale, e niente mai troppo zuccherato. Mia mamma che ha vissuto un’altra guerra (chiamiamola l’ultima o la più recente) a Sarajevo, sapeva stendere la pasta per la «pita» così sottile da vedervi letteralmente oltre. Ricordo tutto, anche i profumini che esalavano dalla cucina della nonna e della mamma. E il sapore di ogni bocconcino che preparavano. E le tavole stracolme di ogni ben di Dio, specialmente per le feste, quando si riuniva la famiglia e venivano gli amici. Prima della guerra, s’intende.

Anche se ormai da parecchi anni vivo in Slovenia, dove di tanto in tanto riesce pure a me di preparare a puntino, a quanto mi dicono, la «jota» (minestra tipica del Carso), di cui sono ghiotto, mi viene sovente la nostalgia di tantissime pietanze bosniache, e cioè - per citarne una - delbosanski lonac(pentola bosniaca).

Ingredienti: 1 kg di carne mista (manzo e montone), 1 kg di patate, 2 carote, 1 pomodoro, 1 peperone, 1 piccolo cavolo cappuccio, 1 testa d’aglio, pepe, sale, paprica rossa, un cucchiaino di Vegeta (condimento vegetale jugoslavo) e olio a piacimento.

Nell’olio rosoliamo la carne lavata e tagliata a dadi. In un recipiente fondo mettiamo dapprima uno strato di carne, dopo uno strato di verdure e patate tagliate a pezzettini e continuiamo l’operazione a strati alterni, aggiungiamo sale, pepe, la paprica e il condimento e bagnamo con l’acqua, nella quale abbiamo versato un po’ d’aceto. Copriamo la pentola con un foglio di carta pergamena e facciamo cuocere nel forno (riscaldato in precedenza a circa 225°) poi a temperatura moderata da 3 a 4 ore.

Spero di non aver dimenticato niente. Buon appetito!

 

(traduzione di Jolka Milic)

 

Josip Osti, poeta, vive in Slovenia.