Confesso di non essere sicura del nome del piatto che sto per descrivere, mentre ricordo molto bene le particolari circostanze in cui fu cotto, cucinato e mangiato. Goreng vuol dire fritto, mentro lui, anche se molto croccante era arrosto, ma Babi è porco, e di questo ne sono sicura. È una ricetta che arriva dalla lontana isola di Flores. Una delle diciasettemila isole dell’arcipelago indonesiano. Flores è un posto magico. Se andate a cercarla sulla carta la riconoscerete subito. Elegante ed allungata, con una forma appena un po’ serpentina, spicca per la sua originale bellezza tra le altre isole dell’arcipelago di Nusa Teggara. Laurel era solita accarezzarne la sagoma sulla carta geografica, alternativamente col palmo e il dorso della mano, come fosse velluto. Flores è il posto geologicamente più instabile dell’intero globo terrestre. Tutti i suoi abitanti, che sono cristiani animisti, hanno perso almeno un parente per un terremoto o un maremoto. Non sono però né tristi né preoccupati. Prendono la vita giorno per giorno ed amano ridere.
Arrivammo al villaggio di Wodong su un pullman stracarico che ci lasciò all’imbocco di una strada polverosa. Percorremmo lo sterrato a piedi per arrivare al resort gestito da Bert. Bert era un belga biondissimo che aveva abbandonato una carriera di pubblicitario per ritirarsi in quell’angolo di mondo. Aveva sposato un’indigena e dipingeva. Le tele che metteva ad asciugare sulla veranda del suo bungalow, con la precisa intenzione di farle ammirare dagli ospiti, erano decisamente poco interessanti. Il resort era invece un luogo speciale. La costruzione centrale era in bambù come tutto il resto, e fungeva da bar-ristorante, con una tettoia, tavolacci in legno e panche. I bungalow erano costruiti a palafitta sia per difendersi dagli animali che dall’acqua. L’oceano era vicinissimo e minaccioso, sentivamo le onde andare a sbattere sull’alta riva, ma lo vedevamo appena, tanto la vegetazione era fitta. La nostra capanna era solo ad una ventina di metri dalla riva ed io tutte le sere prima di chiudere gli occhi pensavo all’onda che avrebbe potuto portarci via.
Era in quell’inquietante paradiso terrestre che Babi cresceva insieme agli altri animali da cortile, razzolando nell’aia sul retro del ristorante. Babi era un maiale di una razza locale. Scuro di pellame, con i denti sporgenti assomigliava a un cinghiale.
La vita di Babi ai tempi in cui facemmo la sua conoscenza non doveva essere granché, sempre legato ad una corda che per quanto lunga costituiva un forte legame. Sicuramente la sua morte fu più gloriosa di quanto fosse stata la sua intera vita.
Nel primo pomeriggio Babi fu ucciso. Io stavo facendo la siesta nel mio bungalow e sentii le grida che provenivano dall’aia. Lo pulirono, farcirono e lucidarono, poi fu infilzato in uno spiedo. Tutto il cortile era percorso da un’eccitazione particolare. Le donne prepararono un intingolo a base di miele, speziato con pepe nero, coriandolo e chiodi di garofano. Accesero il fuoco. E Babi iniziò a rosolare lentamente. Due ragazzini scuri e sorridenti erano addetti a girare costantemente lo spiedo. Con un ramo un altro bambino cospargeva il corpo di Babi con l’intingolo, un altro ancora con una foglia di palma cacciava via le mosche. Babi in fondo era un pellaccia, e per cuocerlo ci sarebbero volute almeno cinque ore. Il pomeriggio si srotolò lentamente, come al solito tra i lugubri rumori della jungla, il frangersi delle onde, le urla di eccitazione provenienti dall’aia. Eravamo gli artefici della fine di Babi, così mentre rosolava gli demmo solo un’occhiata colpevole. Il sole iniziava a tramontare alle spalle del villaggio, poi la notte tropicale scese rapida e pesta come sempre.
Sotto la tettoia del ristorante si accesero i lumi a petrolio, la tavola fu apparecchiata con cura inusuale. Dalla cucina proveniva lo sfrigolio delle patate dolci che la cuoca friggeva in un gigantesco wak. Il profumo croccante e lievemente agrodolce di Babi si spandeva per tutto il villaggio facendo ululare per il desiderio i cani e salivare gli umani.
Arrivammo in ordine sparso con torce e lampade al ristorante.
Alcuni di noi partivano il giorno seguente. Era anche una festa di addio. Bert arrivò ad annunciarci con aria solenne che Babi era finalmente cotto a puntino e si poteva procedere al taglio. Eravamo ormai tutti seduti intorno ai tavoli. Babi fu portato trionfalmente su una portantina di rami, in spalla da quattro bambini e, tra gli applausi, adagiato su un letto di foglie di palma.
L’eccitazione era tale che per Babi, quella sera, si sfiorò la standing ovation. I ragazzini facevano avanti e indietro dalla cucina ai tavoli portando bottiglie di birra, Sambal, una specie di ketchup piccante, e montagne di patate dolci, fritte. Per il taglio di Babi ci fu un breve consulto. Il taglio del porco è roba da crucchi. Nei nostri piatti iniziarono ad arrivare pezzi della sua pelle croccante e profumata di spezie e poi vere e proprie bistecche di tenero Babi. Ci fu un attimo di silenzio e di raccoglimento, negli occhi di tutti noi scorsero veloci le istantanee della breve vita di Babi.
Emi Fontana, gallerista, vive a Milano.