SENZA TITOLO

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Preparazione

Appena finiti gli studi liceali (un liceo classico di cui amavo solo poche cose: l’insegnante di letteratura italiana e filosofia, e anche, conseguentemente, le materie da lei “contagiate” a cui vanno aggiunte latino, disegno, e, sembra scontato, storia dell’arte), decisi che la vita era altrove, non si trovava fra le parole dei libri ma nel flusso flagrante degli eventi. Dando udienza al richiamo dell’“alterità” decisi un viaggio lontano ed esotico, e scelsi una meta “classica” un po’ fin de siècle: la Polinesia di Gauguin.

Qui ho compiuto i miei diciotto anni (nell’isola di Maupitì) ed ho passato nove mesi spostandomi tra le varie isole e i diversi atolli dei tre arcipelaghi della Polinesia francese.

Sono sempre stata sedotta dai gusti dolci, e durante questo viaggio ho “incontrato” uno dei miei dessert preferiti: ilpoé.

Ilpoéè una specie di “composta” di frutta, può essere fatto a base di papaja o di banana. La versione che io prediligo è quella alla banana. Il procedimento è di una semplicità sconcertante, cosa che me lo rende ancora più prezioso.

Si prendono i frutti prescelti (nel caso delle banane conviene contarne una a testa più “una per la teiera”), si sbucciano e si fanno a pezzi (si taglia la banana in tre), quindi si mettono in una pentola sul cui fondo è stato versato “un dito” d’acqua. Insieme ai frutti bisogna mettere a cuocere (a fuoco basso) un po’ di cannella e due chiodi di garofano. L’obbiettivo è raggiungere uno stadio simile alla purea di patate (aiutandosi con una forchetta o un cucchiaio per meglio spappolare i frutti). A questo punto si spegne il fuoco e si mescola al composto una dose a piacere di zucchero di canna. Si prende quindi una teglia da forno, la si spalma di burro e ivi si trasferisce il composto. Questo dovrà rimanere nel forno a cuocere per circa un quarto d’ora a temperatura 150 gradi. Poi è bene programmare il forno per qualche minuto sul grill, finché non si vede che il composto si “abbronza”, cioè finché non ha fatto una leggera crosta. A questo punto si spegne il forno e si aprono due alternative. La filologia vorrebbe che si fosse in possesso di un cocco fresco che dovrebbe venire aperto, e dalla cui polpa (l’acqua è in questo caso inservibile) bisognerebbe ricavare il latte (“rapandola”, riducendola a piccoli “trucioli” - come si fa con le carotine da mangiare fresche - che dovrebbero venire raccolti in un panno bianco e quindi strizzati come se il panno fosse fradicio d’acqua e andasse steso ad asciugare: così si ottiene il latte di cocco). Ma poiché viviamo sotto un cielo con pochi alberi di cui nessuno genera cocchi, ho apportato una variante ancora più ghiotta: una volta che il composto è uscito dal forno, appena tolto, ancora caldo, va “investito” di un certo quantitativo di gelato al cocco, che si scioglie miracolosamente al contatto. Questa è la mia piccola estasi esotica!

 

 

Elisabetta Longari, critico, vive a Milano.