DEL CIBO

  • DEDENARO
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Preparazione

Un nonno, che io non ho mai conosciuto, morto proprio nei giorni in cui venivo alla luce, aveva, così si dice, un unico grande amore: quello per la cucina, a cui sacrificava la parte più importante del suo non troppo ricco stipendio.

Di lui si narrano diversi aneddoti, come non mancasse mai di celebrare adeguatamente – in termini di menu – le feste comandate e come durante la ritirata di Caporetto avesse dovuto abbandonare la pasta appena scolata prima che arrivassero gli austriaci vittoriosi. Non so se per queste eredità genetiche o per altro ho sempre pensato che certi cibi contenessero un qualcosa di arcano.

Innanzitutto quelli legati all’inverno, pesanti, riflessivi e introversi, simbolo di una stagione non solo fredda ma soprattutto degli interni e delle visite. Spesso si andava a trovare dei parenti in un posto curioso, un paese coperto dall’ombra di una montagna per più di otto mesi all’anno. Si entrava in ambienti caldissimi dove le donne erano sedute attorno alla cucina a legna, di uomini non me ne ricordo, lo“sparghert”mentre tutt’attorno vibrava un’umidità che era anche odore, sapore entità fisica che si coglieva anche con lo sguardo. Noi venivamo mandati a giocare in una stanza vuota dove esisteva una vecchia stufa di maiolica alta fino al soffitto.

Da questo paese delle ombre usciva, una volta all’anno, in occasione della festa del patrono un dolcetto strano, come una sorta di palla ellissoide biancastra, ripiena di frutta secca e uvetta. Il suo aspetto e il suo gusto erano inconfondibili, forse perché si impastava con lo strutto o con del burro un po’ diverso dal solito, lievemente irrancidito o chissà, insomma sapeva di muffa, d’umidità o forse di strano. Su questo dolce che ci avevano insegnato a chiamare“strucoleti”nacquero delle vere e proprie leggende urbane, come il fatto che fosse di una difficoltà mitica da preparare, che ci volesse una esperienza leggendaria, roba da iniziati insomma.

La pasta, sentivo dire, doveva esser lievitata per almeno due o tre volte, prima di rinchiudervi il ripieno poi andava posto entro un canovaccio e messo a bollire nell’acqua: si rompeva così quel binomio dolciforno che sembrava imprescindibile ai miei occhi d’infante. In effetti c’era un altro cibo che si cucinava nello stesso modo, lo “strucolo de spinaci” anch’egli avvolto in un candido lino e fatto affogare per lunghi minuti nell’acqua messa a bollore.

Quando poi veniva fatto uscire dall’acqua e sciolti gli svelti punti che l’ago con gugliate ampie vi aveva compiuto, ne usciva un corpo bianchiccio e madido, tra il fallico e il funereo – eros e thanatos –, corpo sciolto dal sudario e riportato a nuova vita come un lazzaro alimentare.

A quale misterioso passato e a quale misteriosa civiltà del bollito, che disdegnava il forno, dunque appartenevano questi usi? E che strano sottile filo di soddisfazione quando scoprivo che nessuno, dico nessuno e tanto meno fuori dalla città e al suo immediato circondario aveva mai sentito parlare di qualcosa di simile: uno strudel messo a bollire, come uno gnocco qualunque, come quei“gnochi de susini”che qualunque cucina dotata di un minimo di buon senso avrebbe considerato un dessert e che noi continuiamo a considerare un primo piatto settembrino, mistero del tempo e del luogo.

Con il passare del tempo il mistero s’è diradato appena. Ora capisco meglio come il miracolo si compie e come dallo straccio bianco esce, candido verme, il prodotto pronto al consumo, ma il quesito di fondo, da dove provenga, da quale fondo di tribalità superstite, si compia lo scontro tra l’acqua e il forno, fra bollito e abbrustolito, questo ancora non l’ho, in cuor mio, capito.

Per intanto ecco la ricetta:

Kraski kuhani struklji - Strucoli de Carso in straza1

Per la pasta: 1 kg di farina, 60 g di lievito, 3 uova intere, 4 cucchiai di limone, 80 g di burro, la scorza grattugiata di limone, 1 cucchiaio di rum, vanilia, un pizzico di sale, latte  qb.

Per il ripieno 800 g di gherigli di noci macinate, 2 uova intere, 200 g di uvetta, 200 g di burro, 300 g di zucchero, 3 manciate di pangrattato, la scorza di limone grattugiato, latte qb.

Con gli ingredienti preparate la pasta e lasciatela lievitare. Nel frattempo preparate il ripieno: soffriggete nel burro il pangrattato, sbollentate le noci nel latte, aggiungete lo zucchero, le uova, l’uvetta rinvenuta precedentemente nel rum, il pangrattato e il limone grattugiato.

Amalgamate bene tutti gli ingredienti e preparate un ripieno morbido. Dividere la pasta in due parti e stendetela. Spalmatevi il ripieno, arrotolatela e avvolgetela in modo non troppo aderente in un tovagliolo, di cui legherete le due estremità. Chiudete anche il bordo superiore del tovagliolo con un ago di sicurezza. Lasciate nuovamente lievitare. Glistrukljiben lievitati vengono cotti in acqua salata bollente per 40 minuti, avendo cura di girarli a metà cottura. A fine cottura toglieteli dal tovagliolo e serviteli ancora caldi, a fette e cosparsi con il pangrattato rosolato nel burro e con lo zucchero.

 

 

1 Ricetta tratta da: Vesna Gustin Grilanc, Xe più giorni che luganighe – Cibi, tradizioni, costumi del Carso e del circondario triestino, Edizioni della Laguna, Gorizia, 1998

 

 

Roberto Dedenaro, poeta, vive a Trieste.